Himanshu Saini
Secondo la Fao, il 40% del miliardo e 300 milioni di persone che popolano l’India osserva un regime vegetariano. A questo mezzo miliardo ne andrebbero aggiunti altri 400 milioni che consumano la carne molto di rado. Di fatto, per motivi religiosi (la mucca è sacra per gli induisti, il maiale intoccabile per i musulmani), gli onnivori regolari del Subcontinente sono meno di uno su tre. Una statistica impressionante se consideriamo che, in Italia, la percentuale di vegetariani (che includono i vegani) si attesta attorno al 7%. E che negli Stati Uniti non arriva al 4%.
Perché, pensiamo, nella green wave che improvvisamente assale le coscienze di tanta ristorazione occidentale post-covid – fine dining e casual -, la cucina indiana è considerata così poco? La domanda si solleva con la torrida foschia di una giornata d’inizio estate a Dubai. L’hotel Voco è la tana di uno dei talenti più interessanti del Subcontinente. Si chiama Himanshu Saini, ha 34 anni, e lavora negli Emirati e non nella nativa Delhi o a Mumbai «perché in India ci sono già 100 mila cuochi; non volevo essere il centomillesimoeuno. E poi vorrei ripagare una città che mi ha dato tantissimo».
Com’è arrivato fino a qui? Srotoliamo velocemente la bio. In età scolare chef Himanshu studia ospitalità e a 21 anni è nel team che dà inizio all’avventura dell’Indian Accent di New Delhi, l’insegna più celebrata a sud dell’Himalaya (è presenza fissa della 50Best Asia degli ultimi 7 anni). Diventa sous chef, lascia e va a lavorare Mumbai, al Masala Library. Nel 2014 chiama a sorpresa New York. Dall’altro lato della cornetta, c’è un ristorante di cucina indiana vicino a Grand Central, Manhattan: «Non potevo dire no», rammenta, «Una volta lì, però, scopro che siamo solo 3 cuochi a cucinare per 100 coperti. Facevamo tanto congelato e pulivo anche i cessi. Ero l’unico indiano del team. E’ l’esperienza più brutta della mia vita». Per fortuna c’era un’offerta pre-esistente su Dubai: «Tornare in India non era nemmeno una possibilità. Avevo solo una remora: negli Emirati Arabi non esiste la guida Michelin; per un giovane non fa curriculum. Poi ho pensato che sarebbe stato troppo facile andare in Francia a cucinare in posti stellati. Da 6 anni sono qui e ho tutta l’intenzione di rimanerci».
La cucina di Trèsind è presente anche a Mumbai e Kuwait
Oggi, a 34 anni, Himanshu definisce la linea di cucina di 3 insegne della megalopoli emiratina. Il Carnival, fundining restaurant nel financial center della città; il Trèsind, al secondo piano del Voco Hotel, proprio davanti al luccicante Museo del Futuro (destinato a diventare il simbolo di Expo, con le sue fitte trame di vetri e acciaio). Il Trèsind è una macchina da guerra da 200 coperti: camerieri ben-istruiti trascinano su e giù per la sala scenografici gueridon. Al tavolo completano piatti di cucina tradizionale-indiana-ma-nemmeno-tanto e una sfilza di bowl vegetariane super-appaganti: chimichurri chutney, kebab di avocado o spinaci, tè ai funghi, papadam ki subzi del Rajasthan (alle cipolle)… Basterebbe davvero questa proposta per ritenersi felici, appagati, leggeri.
Più in là, però, c’è la terza cucina, ancora più interessante. È il Trèsind Studio, una stanza oltre una porticina nascosta in fondo al Trèsind. E’ una graziosa sala da una ventina di coperti, guardati a vista da un pass d’assemblaggio, coi cuochi pinzette in mano tipo primo Noma, un riferimento evidente nella concezione generale del piccolo ristorante. È lo scrigno dei sogni di Himanshu. Che agli inizi del 2018, però, pareva un altro incubo. «Nelle prime settimane facevamo zero, due, tre coperti. Mi prese lo sconforto. Qualche settimana fa è venuto a trovarmi Massimo Bottura (che a Dubai firma Torno Subito). Mi ha detto che lo Studio presenta molte analogie con la sua Francescana: le idee, l’entusiasmo, le difficoltà degli inizi. Non lo dimenticherò mai», spiega mentre sfoggia un cuore tracciato dal modenese sulla salsa di risulta di un suo piatto finito: «L’ho cristalizzato con della resina e incorniciato».
Particolare di sala del Trèsind Studio. Da ottobre 2021 cambierà sede: sarà alk Nakheel Mall, accanto al St Regis, alle porte del Palm di Dubai
Il menu degustazione del Trèsind Studio si chiama Spice Odissey. Sono 14 passaggi a 495 dirham (112 euro). E’ un coloratissimo vocabolario di specialità dal Punjab al Tamil Nadu, da nord a sud. Pani puri, khakra, ghee, rasam, chaat, poppadum… Preparazioni in cui l’incredibile armamentario di spezie gioca come sostituto del sale, un costruttore di sapidità che imprime anche struttura e deliciousness a ortaggi e salse. Che devono detonare con piccantezze garbate «perché il nostro cibo non deve ammazzare il palato e il gusto di chi assaggia», avverte. Un’India prepotentemente ingentilita che in poco tempo ha generato parecchio rumore in città. Così tanto che il Trèsind è pronto a traslocare a ottobre, all’inizio di Expo, in una location più degna, sul tetto del Nakheel Mall, accanto al St Regis, alle porte del Palm.
Un teatro nuovo che esprimerà una grammatica complessa resa semplice dalla sensibilità di Saini. Una fortissima impronta vegetale, interrotta qua e là da un granchio cotto nel burro chiarificato, o da frammenti d’agnello o pollo che recitano sempre più il ruolo di comprimari. Perché prima scena se la stanno prendendo yogurt cremosi con chutney di mango crudo e gelati al curry, stecche di cannella bruciate e poppadamcroccanti, calendule e foglie di nasturzio.
«Entro 10 anni, vorrei poter fare una cucina al 100% vegetale», spiega tracciando l’orizzonte del suo talento cristallino. Nascendo a Delhi e lavorando a Dubai (40% di popolazione indiana) il vantaggio sull’Occidente è già notevole. Chissà che un giorno non colmeremo la distanza più di quanto (non) stiamo facendo ora.
Bio by Identita Golose